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CaCO3 o dell’ipotesi di archeologia del futuro
di Daniele Torcellini | CaCO3 Variazioni parametriche

Dopo quattro anni passati insieme nei laboratori della Scuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna, nel 2006, Ậniko Ferreira da Silva, Giuseppe Donnaloia e Pavlos Mavromatidis danno vita ad un gruppo di ricerca artistica che prende emblematicamente il nome di CaCO3, omaggio chimico ad un materiale – il calcare – che programmaticamente è assunto a cifra stilistica. Ne emerge, fin dalle prime battute, una dimensioni estetica in equilibrio tra rimandi neo-archeologici e tangenze con l’Optical Art e la Minimal Art, per un percorso di indagine formale della materia musiva di tipo squisitamente analitico.

Le opere di CaCO3 si prestano ad essere interpretate attraverso chiavi di lettura tra loro apparentemente contrastanti, riflesso diretto di istanze che i tre conciliano con naturalezza in un gioco di tensioni, dal carattere sperimentale, dove, in ultimo, spetta all’osservatore decidere cosa far emergere. Materia. Tecnica. Concetto. Procedura. Analisi. Controllo. Automatismo. Errore. Archeologia. Formalismo. Percezione. Movimento.

La gamma dei materiali impiegati è piuttosto ridotta, calcare bianco o nero, vetri a foglia oro o argento, vetro comune, vetri colorati trasparenti da cui ricavare tessere dalla forma stretta e lunga, mai uguali a sé stesse, accanto ad intonaci, malte, cocciopesti, più o meno pigmentati, per i fondi, che talvolta si elevano al ruolo di figura o quanto meno di soggetto. In una accezione spiccatamente neo-archologica, sono recuperati materiali che la tradizione del mosaico ha storicamente codificato. Lo scarto concettuale rispetto alla tradizione da cui i tre attingono è però dei più significativi. Con una attitudine che potrebbe dirsi minimalista, le composizioni si strutturano secondo rigide astrazioni geometriche o più libere organizzazioni biomorfe, definite, per ogni opera, da un unico materiale variamente modulato – sottilmente modulato talvolta – nello spazio dell’estensione dell’opera. Un’ossessiva insistenza su variazioni e micro-variazioni dei parametri vitali che permettono ad un opera di esistere.

Una delle caratteristiche maggiormente celebrate del mosaico ravennate e bizantino è il suo rapporto con la luce. Un rapporto che trova la sua mirabile incarnazione nell’espediente tecnico di posare le tessere con angoli di inclinazione, rispetto al piano di posa, variabili da tessera a tessera. Questo permette alle superfici di offrire alla luce una moltitudine di piani di incidenza, tale da renderne l’aspetto vibratile, in continuo mutamento, sulla base del movimento e conseguente cambiamento del punto di vista dell’osservatore, per un luccichio seducente di bagliori instabili. CaCO3, con piglio analitico, enfatizza questo espediente, fino a portarlo alle sue estreme conseguenze. Le tessere sono variabilmente poste in verticale, in orizzontale e in tutti i gradi intermedi tra questi, con morbide progressioni talvolta, come in Movimento n. 7, improvvisi cambi di rotta altre, Movimento n. 18, determinando così sorprendenti effetti chiaroscurali e variazioni cromatiche che stimolano profondamente il nostro sistema visivo. Muoversi di fronte ai lavori di CaCO3, avvicinarsi, allontanarsi, spostarsi da un lato all’altro, è quanto di più naturale possa accadere, rapiti dal pervasivo senso della vista.

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Spontaneità esecutiva e predeterminazione del risultato si alternano, nei lavori di CaCO3, a fronte però di scelte procedurali sempre attentamente calibrate. Nei lavori di tipo geometrico, come l’elegante Movimento n. 13, è presente un bozzetto che ha il compito di progettare la disposizione delle tessere in vista di effetti chiaroscurali consapevolmente ricercati. Diversamente, nelle opere di tipo biomorfo, il risultato non è predeterminato. In seno ad ogni opera di questo tipo, scelto un parametro, come ad esempio l’inclinazione o l’orientamento delle tessere, questo è fatto assumere valori variabili nel tempo dello svolgersi del processo esecutivo, dalla posa della prima tessera fino all’ultima, determinando ogni stadio in base allo stadio precedente, come in Movimento n. 65. Si genera, in questo modo, una catena di eventi non completamente prevedibili, che conduce ad un risultato finale anch’esso non completamente prevedibile. Non solo. Nello svolgimento del processo, altamente formalizzato ma non scevro da accidenti umani, si da anche la possibilità che si verifichino errori, di varia natura e collocabili sui diversi livelli logici che sottostanno alla realizzazione dell’opera. Gli errori necessitano di essere gestiti. Diversamente dall’informatica, essi non conducono ad un arresto e conseguente ripristino del sistema, ma, in modo del tutto spontaneo, sono inglobati nel processo stesso propagandosi come un’onda, in modo da essere riassorbiti, lasciando più o meno traccia di sé, lucido esempio ne è Raccordo n. 1. L’errore assume in questo modo un valore indiscutibile. È consapevolmente perseguito o assecondato ai fini della messa in instabilità del sistema, si pensi in particolare al modo in cui sono scelte le tessere in Dittico, scarti dei tagli di altre tessere. A fronte di una rigida programmazione del processo esecutivo dell’opera, di tipo – si potrebbe dire – algoritmico, è proprio la gestione dell’errore che marca le distanze rispetto ad una meccanizzazione della creazione.

In opere come Soffio n. 1 e Soffio n. 9, il richiamo archeologico diviene radicalmente esplicito. Qui le superfici sono violentemente aggredite con strumenti tipici del mondo del restauro architettonico, al fine di corroderle, in modo non omogeneo, in una sorta di accelerazione degli effetti che il tempo esercita sulla materia. Tale trattamento modula ulteriormente l’aspetto delle opere. Il risultato appare doppiamente spiazzante. Un’estetica del presente, incarnata in materiali tipici del passato, per opere meccanicamente spinte verso il loro stesso destino di deterioramento, avvalendosi di strumenti generalmente impiegati per riportare l’arte a quello che sovente viene definito, con molta leggerezza, originario splendore. È una archeologia distopica e proiettiva, una archeologia del futuro.

La tecnica del mosaico nella ricerca di CaCO3 appare ossimoricamente oscillare tra l’essere una ossessione che offusca la mente dei tre, costringendoli ad inoltrarsi verso i territori dell’automatismo, nella ripetizione monocorde di gesti minimamente variabili al limite dell’alienazione, e l’essere un mero pretesto per condurre una lucida analisi di processi artistici di trasformazione della materia, sospesi tra passato, presente e futuro.

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