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Vie di dialogo/6
di Massimo Pulini | Vie di dialogo 6. CaCO3 e Silvia Infranco

Forse voleva dirci qualcosa di diverso, ma Jannis Kounellis sosteneva che la Pittura avesse due soli soggetti, una Madonna col Bambino e un nuovo modo di dipingerla.

Attraverso questo paradosso, che trovo condivisibile, credo volesse intendere che in campo artistico il Cosa (cosa dipingere, cosa rappresentare), sia quasi sempre offerto dal canone, dalla norma o dal committente, mentre al Come resti il vero compito dello stile, la variabile individuale propria della creazione.

Ma se affermassi che i soggetti della Scultura sono essenzialmente due, Corpo e Materia, non incorrerei in un altro evidente paradosso, tanto risulta eccezione trovare, lungo i secoli, una scultura che raffiguri un paesaggio, così come non c’è una statua che rappresenti una natura morta o un’impressione di settembre.

Entrando al Tempio Malatestiano di Rimini qualche paesaggio di pietra lo si può incontrare, ma i bassorilievi eseguiti da Agostino di Duccio sono una sorta di scultura disegnata, un disegno fatto lievitare quel poco da raggiungere lo stiacciato donatelliano e forse bisogna attendere la Land Art per parlare di paesaggio o la Pop per trovare una natura morta in scultura e comunque anche quelle opere non si sottraggono ai conti con il Corpo o con la Materia.

Il Corpo, nudo o vestito che sia, è dunque il tema principe della Scultura, con le sue infinite forme ed espressioni, mentre la Materia offre allo scultore la sfida dell’enfasi o della sublimazione, il confronto con la sostanza, nel suo peso specifico o nel suo illusorio superamento.

Malgrado la Scultura vanti una dimensione in più della Pittura si può convenire che quella perdita di peso e di spessore, vale a dire di Materia, abbia permesso alla Pittura di volare in maggiore libertà, spaziando anche nel terreno dell’evocazione, dell’onirico o dell’impalpabile.

Questa legge non scritta ha invece vincolato a terra la Scultura e talvolta bisogna andare a indagare i confini tra le due arti, come appunto il bassorilievo, l’Ornato architettonico o il Mosaico per trovare occasioni di riscatto.

A pensarci bene il Mosaico è, storicamente, una forma di pittura ancorata alla Materia, al mondo minerale, ma è la sua natura spaziale, la sua estensione nella superficie, fosse parietale o pavimentale, a fornirgli una propensione al racconto naturale, al fiorire dell’immagine e del simbolo.

Ho steso questa premessa sperando che, attraverso l’orizzonte plurale delle discipline artistiche, risultasse più facile parlare del singolare caso dei CaCO3, ma ora non ne sono più sicuro.

Nelle loro opere, certi temi che di solito consideriamo pittorici, ci appaiono tradotti in lingua scultorea, ma si può dire che anche il percoso inverso venga attivato.

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Come se il segno acquistasse fisicità e divenisse portatore di materia e, sovente, di luce, mantenendo tuttavia quella propensione al ritmo che è propria della pennellata, anche una volta raggiunto il nuovo stato di tessera musiva.

Alcuni pazienti lavori sembrano trattenere le energie un attimo prima del rilascio, come fa una calamita con un pulviscolo ferroso, ma è nella solida malta che quel movimento implode e si fissa.

Questo innesto restituisce una sorta di pittura gemmata, seminata a grano e pettinata dal vento, una pittura tattile, acuminata e viva, eppure temprata nel tempo dalle regole di un regno minerale.

Si può pure osservare questo armistizio delle discipline dalla postazione scultorea, allora si dovrà parlare di una frammentazione del corpo fino all’immaginario biologico, di una vocazione chimica di queste opere che finisce per distribuirle entro il perimetro di un quadro, come dire una scultura sottoposta agli assi cartesiani.

È in questa reciproca perdita di sovranità dei generi artistici che i CaCO3 trovano la loro formula più efficace.

Come una band musicale lo stesso collettivo artistico deriva da una formula chimica. Giuseppe Donnaloia, Âniko Ferreira da Silva e Pavlos Mavromatidis sono elementi diversi, anche per geografia di provenienza, ma il laboratorio in cui l’esperimento di fusione ha trovato successo non poteva essere più appropriato: Ravenna.

Il carbonato di calcio è il sale di calcio dell’acido carbonico, calcare, travertino e marmo sono, ad esempio, composti in massima parte da CaCO3. Allora la formula e il progetto poetico, in qualche misura, coincidono e fanno di questo trio una delle realtà più pulsanti dell’intero panorama contemporaneo.

Il loro è un presente che ha trovato, a Ravenna, concrezione nella storia. Tutti e tre partono da una prima formazione artistica rinnegata a favore di un secondo investimento nel campo del restauro, ma, come succede ai migliori ricercatori scientifici, è giusto attendersi il fallimento dei primi tentativi per giungere alla decisiva scoperta. La lingua madre dell’arte, innestata al rigore del restauro, ha forse fornito un’etica e una misura allo sguardo.

Credo sia vero che, arrivati ad un certo punto, sia più importante l’immaginazione della conoscenza, come disse Albert Einstein, ma è quando le componenti si sommano nella giusta proporzione che l’esperimento riesce.

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